La Top 20 dei soprannomi del calcio: da 'Pinna d'oro' a 'Kamikaze', ecco i nomignoli più curiosi

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La Top 20 dei soprannomi del calcio: da 'Pinna d'oro' a 'Kamikaze', ecco i nomignoli più curiosi

Di tanto in tanto la carta d’identità viene riposta nel cassetto. Capita quando un giocatore suscita un’emozione tale da meritarsi un epiteto che poi gli rimane incollato fino a diventare una seconda pelle. Capita quando certi campioni diventano animali e supereroi dei fumetti, armi di distruzione di massa e divinità. L’Inter ne ha avuti tanti di soprannomi capaci di riassumere con una sola parola un singolo fuoriclasse. Ecco quali sono i venti entrati nella leggenda.
20. Julio Ricardo Cruz, ovvero “El Jardinero”: la storia del giardiniere che diventa bomber fa molto favola di Cenerentola, ma è una bufala colossale. Se Julio Ricardo Cruz è diventato El Jardinero lo si deve a faccende prettamente calcistiche: a diciannove anni milita nel Banfield ed esordisce in prima squadra alla Bombonera, tempio del Boca Juniors, siglando il gol della vittoria. Il lunedì successivo i giornali lo vanno a cercare, lo trovano sul campo con la formazione Allievi che gioca con un tagliaerba insieme ad altri tre compagni e viene immortalato così. Il giorno dopo la foto fa il giro dell’Argentina e da quel momento Julio diventa Il Giardiniere, soprannome che si porta pure in Italia, dove si diverte a falciare come erbacce la difesa juventina. Piantagrane.
19. Angelo Franzosi, ovvero “Camomilla“: c’era solo un centravanti in grado di fargli paura, la tensione prepartita. Un’ansia da prestazione che lo logorava fino a fargli saltare i nervi e che lui combatteva con il solo modo che conosceva: prima di ogni gara infatti il portiere interista trangugiava ettolitri di tisane, così che i compagni iniziarono a chiamarlo “Camomilla”. La prima che beve è il giorno del suo rocambolesco esordio: Angelo ha vent’anni ed è ancora nei ragazzi, ma i due portieri della prima squadra si fanno male e lui parte per Bologna per giocare dal primo minuto. Appena arrivato in albergo non trova nessuno, perché sono tutti a fare la rifinitura e lui divorato dalla paura inizia ad abbeverarsi con infusi e pozioni, che gli porteranno fortuna perché in campo non sbaglierà nulla. Terrorizzato.
18. Giampiero Marini, ovvero “Pinna d’oro“: sgraziato ma efficace, è una delle tante vittime di Gianni Brera, che per lui coniò il soprannome di “Pinna d’oro”. Colpa di quei piedi lunghi e poco nobili, che però sul campo lo facevano schizzare e gli portavano in dote una grande lecca dalla distanza, con cui risolverà intricate situazioni. Poca tecnica e tanta sostanza, Marini appartiene alla razza di mediani nerazzurri tutto cuore e polmoni. Una bandiera interista che da allenatore-traghettatore alzerà anche una Coppa Uefa nel 1994. Prezioso.
17. Ivano Bordon, ovvero “Pallottola“: timido e spaurito nella vita di tutti i giorni, in campo sapeva trasformarsi. Difetta nelle uscite alte l’Ivano, ma tra i pali è una scheggia, un mostro di riflessi. I tifosi nerazzurri se ne accorgono nel 1972, quando a Berlino l’Inter sfida il Borussia Mönchengladbach per la ripetizione della celebre partita della lattina tirata a Boninsegna. I tedeschi a Milano hanno perso 4-2, ma credono nella rimonta e cingono d’assedio la porta interista, scontrandosi però contro i voli prodigiosi di Bordon, che nella ripresa ipnotizza Sielof dal dischetto sancendo di fatto la qualificazione al turno successivo. Da quel momento in avanti per tutti sarà Pallottola, il portiere più veloce del West. Missile.
16. Marco Materazzi, ovvero “Matrix“: quando saliva in cielo per incornare la palla, che fosse nell’area sua o in quella altrui, sembrava rimanere sospeso in area per interminabili secondi. Proprio come Neo, protagonista di Matrix. Da qui arriva il soprannome che gli affibbia Roberto Scarpini, appassionata voce nerazzurra, che gioca con l’assonanza del cognome, ma non solo. Proprio The Voice dirà di lui: “Mi sa che chiedo il copyright per la mia invenzione… L’ho chiamato Matrix perché l’ho visto subito con qualità quasi sovrannaturali, come Keanu Reeves nel film. Un supereroe”. Che in maglia nerazzurra vincerà tutto e si guadagnerà l’odio eterno del pubblico nemico. Uomo-immagine.
15. Giacinto Facchetti, ovvero “Cipe“: chissà se il Mago lo aveva scambiato per qualcun’altro oppure se semplicemente quel nome così lungo non gli diceva proprio nulla. Fatto sta che il giorno della convocazione nella lista dei convocati appesa al muro degli spogliatoi appare un nome strano, quello di Giacinto Cipelletti. Svelato l’arcano e imparata la versione ufficiale, la storpiatura rimarrà per sempre incollata al ragazzo di Treviglio, anche se col tmpo per brevità viene trasformato in Cipe. Deformato.
14. Armando Picchi, ovvero “Penna Bianca“: deve il suo soprannome al grande Gianni Brera, che vede in lui tutti i crismi del leggendario capo indiano. Il giornalista decide di chiamarlo così dopo la mitica notte di Vienna in cui l’Inter vince la sua prima Coppa Campioni. Faccia incavata da lunghi solchi, da guerriero Sioux stanco per le mille battaglie, leader della resistenza nerazzurra agli assalti nemici, capitano della polveriera inespugnabile che conquistò il mondo grazie ai consigli e agli urlacci del suo ultimo baluardo, dal piglio battagliero e lo sguardo austero. Un’icona che rimarrà per sempre nel cuore di tutti. Totem.
13. Darko Pancev, ovvero “Ramarro“: quando arriva a Milano è il Cobra, il più letale predatore dell’area di rigore del pianeta, l’uomo che con i suoi gol ha portato la Stella Rossa a diventare una super potenza del calcio europeo. Con l’Inter però la vena del bomber appassirà improvvisamente e Darko si segnalerà più per i suoi macroscopici errori sottoporta che per i suoi morsi ai portieri. Il Cobra diventa così un più innocuo Ramarro. Farà perdere la pazienza pure a un agnellino come Bagnoli, che incalzato dalla stampa dirà: “Dite che Pancev deve giocare perché macedone? Sarà, ma io vengo dalla Bovisa e non sono mica un pirla…”. Anestetizzato.
12. Luis Suarez, ovvero “L’Architetto“: Angelo Moratti cerca disperatamente l’uomo in grado di far fare alla sua squadra il definitivo salto di qualità e lo trova in Spagna. Dal Barcellona arriva Luisito Suarez, la miglior testa pensante calcio d’Europa, uno che sa progettare il giococon la stessa facilità con cui si scarta una caramella. Non a caso verrà ribattezzato Architetto. Genio e raziocinio allo stato puro, Suarez prende goniometro e compasso e costruisce un castello inespugnabile che si chiama Grande Inter. Renzo Piano.
11. Giorgio Ghezzi, ovvero “Kamikaze“: portiere matto se ce n’è uno, diventa celebre per aver inventato l’uscita sui piedi dell’avversario. È la specialità della casa, che Ghezzi mette in pratica con indomito coraggio la prima volta in un derby, lanciandosi tra le gambe di Gunnar Nordhal, mastodontico centravanti svedese che con una scarpata manderebbe al creatore pure un toro. Da quel momento diventa Kamikaze, come quei piloti giapponesi che nella Seconda Guerra Mondiale si lanciavano sulle navi statunitensi nell’Oceano Pacifico. Un’audacia che lo porterà pure a rompersi il braccio due volte, ma poco importa a uno come lui. Eroico.
10. Francesco Moriero, ovvero “Sciuscià“: arriva all’Inter in sordina, come parziale risarcimento di un Milan che strappa ai nerazzurri il brasiliano Andrè Cruz. Al suo esordio a San Siro assiste a un Recoba che regala una doppietta da urlo che vale la vittoria e CHecco, stupito da cotanta bellezza, si inchina e finge di lucidare il sinistro del Chino, per un’esultanza che diventerà una hit e lo incoronerà Sciuscià. Deverente.
9. Javier Zanetti, ovvero “El Tractor“: di soprannomi ne ha centinaia e d’altronde il soggetto si presta bene. Nessuno però gli calza più a pennello di “El Tractor”, nickname di inizio carriera che si porta dietro dall’Argentina. A darglielo fu Victor Hugo Morales, il più celebre telecronista sudamericano, estasiato dalla potenza di questo “ragazzino” quando parte palla al piede. Una corsa che i tifosi nerazzurri ormai conoscono come le loro tasche, fatta di una forza rara, corredata da un dribbling secco ma appena accennato: un piccolo spostamento della palla e l’avversario viene disorientato, con il numero 4 che prosegue a tutto gas manco al posto delle scarpe avesse quattro ruote motrici. È così da diciassette anni e preghiamo che non finisca mai. Commovente.
8. Giuseppe Meazza, ovvero “Balilla“: a nemmeno quindici anni “Fuffo” Bernardini lo scopre tra le polverose vie di Porta Romana e lo porta all’allenatore interista Arpad Weisz, che se ne innamora subito e lo aggrega in prima squadra, facendolo esordire a 17 anni in Coppa Volta. Quando il tecnico ungherese legge la formazione con il Peppin titolare al centro dell’attacco, Leopoldo Conti, stella della squadra, storce il naso pronunciando la storica frase: “Adesso andiamo a prendere i giocatori pure all’asilo. Perfino i Balilla facciamo giocare”. I Balilla in epoca fascista erano i ragazzini dagli otto e i quattordici anni. Il Balilla però non si scompone, segna una doppietta e lascia tutti di stucco. Compreso il Poldo Conti che a fine partita gli dà una pacca sulla spalla esclamando: “Uè Pinella, però sei in gamba…”. Abbastanza in gamba da vincere due Mondiali e segnare 208 reti in maglia nerazzurra. Sottovalutato.
7. Alessandro Altobelli, ovvero “Spillo“: alto alto, magro magro, a vederlo quel ragazzone allampanato sembra non valere una lira. E invece sottoporta punge e fa parecchio male, perché ha il gol nel sangue. Viene da qui il soprannome Spillo che per Alessandro Altobelli diventerà qualcosa di più un nickname, se è vero che una volta smesso di giocare si butterà in politica e perderà le elezioni comunali di Brescia del 1996 perché molti cittadini sulla scheda scriveranno “Spillo Altobelli” annullando così il voto. A rinominarlo così fu il suo maestro delle elementari a Latina, che non si perdeva una partita dei suoi ragazzi. Forse avrebbe fatto meglio a tenerli sui banchi di scuola, visto che anni dopo Spillo andrà in giro sparando sentenze come “C’è chi può e chi non può… Io può”. Spigoloso.
6. Gabriele Oriali, ovvero “Piper“: soprannome che gli affibbia l’eterno Gioan Brera per descriverne l’effervescenza che sapeva dare alle partite. Quando le cose andavano bene era Piper, come lo Champagne di moda a cavallo tra Anni Settanta e Ottanta. Quando invece non gli girava il celebre giornalista lo retrocedeva a un più proletario e umile Gazzosino. Sempre e comunque con le bolle.
5. Giuseppe Bergomi, ovvero “Lo Zio“: “E tu avresti 18 anni? Ma se sembri mio zio…”. Parole e muscia di Giampiero Marini, bandiera nerazzurra che un teenager così non l’aveva mai visto. Colpa dei baffoni che Beppe si fa crescere sin da quando è ragazzino e che lo fanno sembrare molto più grande di quello che è in realtà. E anche quando è in campo Bergomi metterà in mostra un’esperienza fuori dal comune. Fosse nato in Africa si sarebbe malignato… Maturo.
4. Roberto Boninsegna, ovvero “Bonimba“: un titano che con la sua potenza prorompente sa sconquassare qualsiasi difesa. Un tornado a cui non si può opporre resistenza. Per questo Gianni Brera lo chiama Bonimba, termine onomatopeico che parte dal suo cognome per ricordare il rumore di un’esplosione al tritolo. Bonimba è il suono di una detonazione, una bomba atomica che deflagra in area di rigore e che non lascia superstiti. Bonimba è la parola d’ordine per milioni di interisti che lo eleggono a simbolo all’inizio degli Anni Settanta. “Credo nelle rovesciate di Bonimba” dirà Ligabue per bocca di Stefano Accorsi nel suo film Radiofreccia. A quei tempi ci credevano in tanti. Ordigno bellico.
3. Mario Corso, ovvero “Il Piede sinistro di Dio“: Mariolino non ha mai avuto troppa fortuna in Nazionale, bloccato com’era all’epoca da altri autentici fenomeni come Mazzola, Rivera e Bulgarelli. Qualche momento magico però c’è stato, come nell’ottobre 1961, quando l’Italia  sfida Israele a Tel Aviv per le qualificazione ai Mondiali che si giocano l’anno dopo in Cile. Sulla carta non dovrebbe esserci partita, ma a un quarto d’ora dalla fine gli Azzurri perdono 2-1. Pareggia Altafini, poi, negli ultimi tre minuti, ci pensa il talentino dell’Inter a risolvere la contesa con una doppietta, tutta fatta con il sinistro naturalmente. A fine gara, giunto in sala stampa, l’allenatore israeliano allargherà le braccia commentando “siamo stati battuti dal piede sinistro di Dio”. Un soprannome che resterà incollato tutta la vita a Mariolino, che nel corso degli anni giustificherà la divina nomea. Celestiale.
2. Walter Zenga, ovvero “L’Uomo Ragno“: un autentico supereroe per tutti i tifosi nerazzurri, un portiere talmente forte che sembrava volare da un palo all’altro sparando ragnatele immaginarie per raggiungere i palloni più impossibili, con parabole degne del Peter Parker creato dalla fantasia di Stan Lee negli Anni Sessanta. Peccato che il paragone venga fuori in circostanze quasi “drammatiche”: sulla panchina della Nazionale è appena arrivato Arrigo Sacchi, che tra lo stupore generale fa fuori Walter, in quel momento uno dei migliori estremi difensori del mondo. Raggiunto dai giornalisti che gli chiedono un parere sulla sua esclusione, Zenga si limita a canticchiare la celebre hit degli 883 “Hanno ucciso l’Uomo Ragno”. E da quel giorno per tutti diventerà la risposta umana a Spider-Man. Guascone.
1. Benito Lorenzi, ovvero “Veleno“: “Benito, tu sei un veleno!” gridava la mamma al futuro centravanti dell’Inter, esausta delle sue continue marachelle. Un vizio che Lorenzi non ha mai perso neanche da grande. Se all’esordio vieni espulso perché prendi a sganassoni una leggenda come Rava, se piazzi sul dischetto una fettina di limone per far sbagliare il rigore a Cucchiaroni all’ultimo minuto di un derby, se segni al portiere Merlo e lo apostrofi con un “E adesso fischia…”, non puoi aspettarti di finire al paradiso dello sportivo. Birbante.

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