Sergio Clerici: "Ci rimasi male quando il Napoli m'inserì nell'affare Savoldi col Bologna. Per questo sono più legato ai rossoblù"

Rassegna Stampa fonte : Il Resto del Carlino
Sergio Clerici: Ci rimasi male quando il Napoli m'inserì nell'affare Savoldi col Bologna. Per questo sono più legato ai rossoblù

IL GRINGO è ancora in formissima. A 75 anni Sergio Clerici è tornato a vivere nel suo Brasile, ma il cuore dice ancora Bologna. Molto più che Napoli, dove pure segnò a ripetizione. Sono passati oltre quarant’anni, ma il ricordo del bomber che in rossoblù fu protagonista per due volte è ancora vivissimo, tra i tifosi che l’hanno potuto vedere all’opera. E la voce che parla all’altro capo del telefono è lucida e presente, come il ‘Gringo’ era in zona gol.
Clerici, domani c’è Bologna-Napoli. Per lei è quasi un derby.
«Sono stati momenti importanti della mia carriera, a Bologna giocai due volte. La prima con molti dei protagonisti dello scudetto, nel 1967-68 c’erano Bulgarelli, Pavinato, Janich, Tumburus, Fogli, e poi Perani, Haller che era fortissimo. Iniziamo con Carniglia allenatore, finimmo con il bravissimo Cervellati, una grande persona. E c’era Ezio Pascutti, un’ala sinistra incredibile».
L’ultimo ad essere tornato a giocare in Paradiso.
«Non sapevo che Ezio fosse morto, mi dispiace moltissimo. Era la migliore ala sinistra in quegli anni, ma era davvero una bella squadra quella. Il calcio era diverso, c’erano valori anche fuori dal campo che oggi non ci sono più, noi ci trovavamo sempre a mangiare con le famiglie, dopo le partite, uscivamo per andare a giocare a carte. Adesso fanno altre cose».
Ci racconti la sua Bologna.
«Andavamo sempre a mangiare in un ristorante in centro che si chiamava ‘La Brenta’, eravamo lì anche quando sentimmo le scosse del terremoto del Friuli. Io vivevo in un appartamento in via Dante con mia moglie Mariuda. Andavo sempre in giro con un amico che aveva un garage, si chiamava Ercolessi. Sono rimasto in contatto con la figlia e con gli amici di Bologna, con Cresci per esempio. Quelli che erano ancora vivi li ho rivisti alla festa per il Centenario del club, è stato molto emozionante. Le dico la verità: se un giorno dovessi lasciare il Brasile, il posto dove vorrei vivere è Bologna».
Più di Napoli?
«Sono rimasto più legato a Bologna. In Campania giocai due buone stagioni, segnando molto, 29 gol. E per questo ci rimasi male perché ero partito per le vacanze in Brasile con il contratto in tasca, poi il Napoli mi cedette al Bologna nell’affare Savoldi. Il club rossoblù voleva uno forte, oltre ai soldi. Però la mia seconda avventura in rossoblù andò bene, ne conservo ricordi bellissimi».
In panchina c’era Pesaola.
«Lui conosceva il calcio come pochi, è sempre stato il mio preferito. L’anno dopo con Giagnoni andò peggio, era fatto a modo suo. Il presidente era Luciano Conti, mio figlio Paolo ha lavorato per lui per un po’, come grafico: faceva le copertine per il Guerin Sportivo».
Lei fu l’ultimo straniero a giocare in Italia per anni.
«E’ vero. Dopo il Bologna andai alla Lazio e quando me ne andai, nel 1978, l’Italia chiuse le frontiere fino all’inizio degli anni ‘80».
Dopo la Lazio si ritirò?
«No, andai in Canada dove giocai quattro mesi nei Montreal Beavers, vincemmo lo scudetto canadese e io fui il capocannoniere. La squadra era di proprietà di un italiano che produceva scarpe».
Pensi che ora il Bologna è di un italo-canadese di Montreal, che combinazione.
«Non conosco Joey Saputo, ma qui in Brasile mi arrivano voci che il Bologna sta lavorando molto bene per costruire il futuro, so che sta ampliando Casteldebole. Quanti allenamenti ci ho fatto».
Dopo per un po’ fece anche l’allenatore.
«Qui in Brasile dove vivo ora ad Araraquara, a 250 km da San Paolo, con mia moglie e i miei tre figli Paolo, Cristina e Marco. L’ultima squadra che ho allenato è proprio quella del mio paese, che ho portato al quarto posto. Prima avevo guidato il Santos, un onore per me, ed ebbi l’occasione di tornare in Italia nel mundialito per club. Guidai anche il Palmeiras, dove riuscirono ad esonerarmi dopo tre sconfitte in 21 partite, dietro c’era Osvaldo Brandao che spingeva per avere la panchina, lui è stato anche ct del Brasile. Adesso mi riposo, e seguo il calcio da lontano. Anche il mio Bologna».
Perché la chiamavano ‘Il Gringo’?
«Me lo diedero a Lecco, quel soprannome. C’erano molti film western in quegli anni, Gringo era un pistolero, ma voleva dire anche uno straniero, un dritto. A me è sempre piaciuto».

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