Secondo l'edizione di oggi del Corriere dello Sport, la vita (talvolta) è una palla avvelenata: ma fino al primo novembre e a quel Napoli-Roma, sembrava proprio un’altra storia e Callejon fu il principe azzurro. Dieci partite (di campionato) ed otto reti, tra doppiette (all’Inter) da perdersi dinnanzi allo specchio e veroniche (al Genoa) da incantare, tra prodezze effimere (la zampata al Palermo) e graffi letali (il tap in al Sassuolo), tra un destro ed un sinistro, affinché non ci fossero dubbi sulla competenza. Era scritto, dunque, che finisse in Nazionale, e si leggeva ovunque, in casa ed in trasferta, ed ormai da un anno e passa: venti gol nella sua prima, (quasi) irripetibile stagione. «Ma io spero di segnarne almeno una in più stavolta, perché mi piacerebbe battermi e perché significherebbe aver aiutato il Napoli a far qualcosa di importante». Fatto, com’era logico che succedesse: il 7 novembre è la «roja» ed il 15 è il debutto (contro la Bielorussia), ignaro della metamorfosi ch’è appena cominciata. Di Callejon è statisticamente accertato, è tatticamente ingiustificato (fa quello che faceva prima), è tecnicamente inaspettato (perché l’uomo è rimasto eguale), è serenamente attraversato, nonostante ne siano capitate persino a Doha: l’occasione a tu per tu con Buffon, che fino al trenta ottobre sarebbe andata diversamente; o il rigore nella sequenza ad oltranza. E dunque: dov’è finito Callejon è un mistero, perché il bomber parte (come allora) alle spalle dell’ultimo difensore e taglia il campo come deve e calcia a modo suo e sceglie i tempi giusti e punta dritto al cuore della questione.Â