Pisacane, il fratello: "Era arrivato a 34 chili per la malattia. A Napoli sentivamo 2-3 spari al giorno"

Le Interviste fonte : gianlucadimarzio.com
Pisacane, il fratello: Era arrivato a 34 chili per la malattia. A Napoli sentivamo 2-3 spari al giorno

All’inferno e ritorno, come quel film. Fabio Pisacane ha saggiato le difficoltà più grandi della vita e le ha sconfitte, tutte. E’ diventato un esempio, scoprendo un ruolo che non avrebbe mai pensato di ricoprire per una comunità così estesa come gli appassionati di calcio. Napoli si sta preparando ad accoglierlo per la prima volta come avversario, in una carriera che l’ha visto girare per l’Italia.

CRESCERE NEI QUARTIERI SPAGNOLI

Via Toledo segna un confine non solo geografico, ma anche ideale. Una strada che fa tanto metropoli, frequentata a tutte le ore del giorno e piena di attività commerciali: basta semplicemente varcarla con pochi passi, per entrare nel dedalo di vicoli che compone i quartieri spagnoli e trovarsi davanti uno spaccato di vita totalmente differente. Giovani, anche tanti stranieri, che affollano le strade in un clima di spensieratezza. “Prima non era così. Tra gli anni 90 e 2000, si sentivano 2-3 spari al giorno” racconta Dino Pisacane, fratello maggiore di Fabio, a gianlucadimarzio.com. E non solo: “Abbiamo sempre avuto un rapporto speciale, perché io ho dieci anni in più rispetto a lui. Così sono stato anche un secondo papà”. La loro infanzia è stata tutt’altro che serena. La criminalità era un fenomeno così radicato che era quasi impossibile crescere senza averne avuto contatti diretti. “Quando eravamo piccoli, eravamo sempre per queste strade. Mi portavo Fabio e un amichetto, facevamo una porta con quello che trovavamo e giocavamo tutto il giorno. Finché poi non sentivamo sparare: a quel punto, avevamo paura che magari potesse essere coinvolto qualcuno della nostra famiglia, era il nostro primo pensiero. Tornavamo subito a casa” confida Dino. Scegliere una via illegale, per molte persone, era l’unica soluzione. “Avevamo difficoltà ad assicurarci il pranzo e la cena. Siamo quattro fratelli, Fabio è il terzo, io il primo. Qualche errore da adolescente l’ho commesso anch’io, ma non avrei mai permesso che i miei fratelli avessero potuto fare lo stesso”. Il compito, però, si è dimostrato molto meno impegnativo del previsto, per fortuna: “Quando si cresce con i migliori valori, si comprende subito di non poter far parte di un mondo del genere. E’ stato così per tutti noi”.

SCONFIGGERE LA MALATTIA

A 13 anni, Fabio viene chiamato nel vivaio del Genoa. Il suo alloggio era un oratorio, spesso utilizzato dalle squadre come foresteria per i ragazzi del settore giovanile. Presto comincia ad accusare uno strano malessere. “Lo sentivamo tutti i giorni e da un po’ ci disse che stava avendo problemi fisici. Inizialmente pensammo fosse l’influenza. Poi una sera ci chiamò per dirci che non riusciva nemmeno a togliersi la maglia. Papà allora decise di andare da lui, in treno”. Niente è come l’occhio di un genitore, che si rende conto della gravità della situazione. All’ospedale di Savona, i medici lo visitano. Dopo averne esaminato i sintomi, le opzioni sono tre: leucemia, AIDS, sindrome di Guillain-Barré: “Se fosse stata la prima ipotesi, non avremmo avuto il coraggio di dirlo a mamma. Avevamo escluso che fosse sieropositivo e i dottori si sbilanciarono dicendoci che per loro si trattava proprio di questa strana malattia di cui nessuno aveva sentito parlare”. Una patologia del sistema nervoso che può portare alla paralisi totale, anche alla morte. Cominciano i così i sei mesi più duri. “Fabio stava malissimo. Era spesso in sala di rianimazione, intubato. Era arrivato a 34 chili, non aveva più voglia di combattere. ‘Se non posso più giocare a calcio, preferisco morire’ diceva. Per questa malattia ci spiegarono che era fondamentale restare positivi per rallentarne il progresso e debellarla. I medici avevano escluso che potesse tornare a giocare, invece si riprese e iniziò ufficialmente la sua carriera di calciatore”.

LA FORZA DELL'ONESTÀ

Gira l’Italia, inseguendo un sogno. Nelle due stagioni a Lumezzane trova la continuità e anche una nuova sfida con la propria vita. Buffone, allora ds del Ravenna dove Pisacane si trasferì dopo il Genoa, gli offre 50 mila euro per truccare la sfida tra loro e i bresciani: “Rispose subito di no, che non l’avrebbe fatto, anche se era una cifra considerevole considerato il suo stipendio. Poi telefonò anche a me, voleva un consiglio su cosa fare. Ragionammo su quanto avrebbe fosse stata grave anche l’omissione, quindi decidemmo di denunciare tutto”. Ma questo gesto, così nobile, non fu subito apprezzato, anzi. “I tifosi del Ravenna cominciarono a minacciarlo con ogni mezzo. Buffone era in società da oltre vent’anni, era una figura storica. E finché non si è scoperto tutto, sono stati giorni davvero difficili. Emersa la verità, Fabio ha avuto tutte le scuse che gli dovevano. Dopo aver sempre respinto la criminalità, essere additati di una nefandezza simile era troppo”. Il Guardian lo ha eletto calciatore dell’anno, la FIFA ha voluto renderlo ambasciatore del calcio. Ma il riconoscimento più sentito lo ricevette dal magistrato che curò l’inchiesta sul calcioscommesse. “Ci invitò a Roma, accompagnai Fabio. Ci ringraziò, confermandoci anche che Fabio avrebbe rischiato molto se non avesse denunciato. Le origini purtroppo gli procuravano delle attenzioni più marcate ma su 5.000 intercettazioni eravamo tra i pochissimi ad esser stati onesti. Ci facemmo offrire un bel caffè”.

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