Ultime news Napoli - Ingegneria robotica, pallone e rock ‘ n’ roll, in rigoroso ordine alfabetico. Vi proponiamo alcuni passaggi dell'intervista di Repubblica a Bruno Siciliano, ricercatore scientifico di fama mondiale e cattedratico alla Federico II:
«Napoli per me è sempre stato tutto: per questo non ho voluto indossare una maglia diversa da quella della mia città, nella vita e nella professione. Mi spiego con una metafora calcistica: vincere con la casacca del Real Madrid è certamente meno complicato, riuscirci con quella azzurra, però, ha un sapore molto più gustoso e accattivante. In 66 anni mi sono trovato davanti a tante sliding doors e alla fine ho preferito sempre restare qui: è una scelta di cui posso andare fiero».
Negli Stati Uniti, tra l’altro, non avrebbe potuto avere un ufficio con vista panoramica sullo stadio Maradona, che è a due passi dal suo ateneo. Giusto, Siciliano?
«Lei scherza, ma per finire il mio dottorato alla Georgia Tech di Atlanta nel 1985 mi sono perso la seconda stagione di Diego, pur essendo sempre stato abbonato allo stadio, fin dal 1966 con mio padre e mio zio. Ebbi l’offerta per una cattedra da 50 mila dollari all’anno negli Stati Uniti: invece ritornai a Napoli, mi feci la tessera della curva B e vidi dal vivo il primo scudetto. E, mi creda, non mi sono mai pentito di questa scelta».
I tifosi stravedono per lei: lei, Bruno è il “professore-ultrà”...
«Sarà perché sugli spalti e anche sui social mi comporto come un ultrà degli azzurri. La mia esuberanza è bene accettata perché metto la stessa passione in tutto quello che faccio: lavorare, andare a un convegno, entrare nei cuori degli studenti e correre allo stadio da tifoso. Stress uguale, pure fisico: ci metto tutto me stesso».
Quand’è che arrivò la svolta per la sua vita?
«Nel 1989 ho vinto un concorso come ricercatore e ho iniziato la carriera accademica. Ma prima c’era stata un’altra sliding door... L’America chiamò, di nuovo. Il mio mentore, Bernie Roth, che adesso ha 91 anni, mi offrì nel 1988 una prestigiosa posizione per una cattedra all’università di Stanford, ma sarei dovuto stare per almeno 6 anni lì».
E invece?
«Ho preferito vedermi anche il secondo scudetto, la Coppa Uefa e la Supercoppa Italiana: fu un’altra scelta giusta».
Alla fine, negli Stati Uniti c’è “arrivato” lo stesso...
«Ma con la soddisfazione unica di legare il mio nome a quello di Napoli, perché il testo è “Made in Federico II” e nel 2022 ha vinto anche l’Engelberger Award, praticamente il Nobel dell’Elettronica per la ricerca. Il riconoscimento l’ho ricevuto insieme a Oussama Khatib, il professore che mi avrebbe voluto con lui negli Stati Uniti. Invece a Stanford c’è arrivato il mio libro: i quattro paradigmi della robotica moderna, accettati globalmente in campo scientifico. Ho vinto lo scudetto con la maglia della mia città e mi riconosco un po’ in Francesco Totti: secondo me il più forte calciatore italiano di sempre. Come lui, ho fatto una scelta identitaria».
Così, Napoli adesso è un riferimento per la robotica mondiale.
«Di mio ci ho messo altri 22 libri,120 articoli su riviste specializzate e la partecipazione a 350 a convegni. Siamo un team di 45 persone: tre professori ordinari, tre associati, quattro ricercatori, 37 tra dottorandi di ricerca, borsisti, ingegneri, tecnici, amministrativi e comunicazione. Siamo una piccola azienda, che si sostiene con i fondi. La prossima “challenge”, la sfida attuale dellamia carriera accademica, è un progetto per combattere il cancro del colon-retto: è l’unico progetto finanziato nel 2023 nel campo robotico dal Consiglio Europeo della ricerca».
Made in Napoli anche questo.
«Fare robotica qui è più facile, vuole sapere perché? Perché il cittadino napoletano, per la sua straordinaria versatilità, è il mio prototipo ideale di “macchina”: in nessun altro posto mi sarebbe venuta l’idea del robot pizzaiolo. È successo proprio perché faccio ricerca nella mia città».
Cosa sono per lei i robot?
«Sono macchine che devono essere con noi, tra di noi e dentro di noi. L’innovazione è una spinta continua verso il progresso. È questo il senso diKeep the Gradient (“tieni alto l’entusiasmo”, ndr): il mantra che mi accompagna da sempre e sintetizza la filosofia con cui affronto il mio lavoro e la ricerca. Mantenere vivo il processo di apprendimento, all’insegna dell’impegno e del gioco, senza mai fermarsi, senza mai smettere di esplorare».
Parola di professore e di ultrà?
«Il tifo è anche una metafora della vita. Lo dico sempre ai miei giovani studenti: seguite i vostri sogni e coltivate le vostre passioni. È così che io sono riuscito a mettere insieme ingegneria robotica, pallone e rock ‘n ‘roll».